jueves, 5 de abril de 2018

STATI UNITI: IL CONTINENTE E' MIO, IL VENEZUELA DICE NO


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Nelle Americhe non-anglosassoni, nessun cambiamento è possibile senza l'adesione -o la neutralità- delle forze armate

CORIOLANIS La sterzata sudamericana in corso si iscrive dentro il riallineamento brusco con regia degli Stati Uniti. Tutto è ammissibile  meno che venga messa in discussione l'egemonia assoluta sul continente americano. Il palese arretramento dalla scena mediorientale, la
guerra infinita contro gli afgani, iraqeni e siriani; le minacce spettacolari e scurrili contro Pyongyang non sono riuscite a partorire la chiusura ermetica della vitale frontiera marittima della Cina. Svanisce il sogno di controllare manu militari tutto quel che la Cina importa ed esporta. L'Iran è diventato un fattore attivo importante in Medioriente, dove gioca di sponda con la Russia e Turchia.

Il ritiro di 5 miliardi di dollari al Pakistan, da sanzione esemplare si è trasformato in un autogol perchè si rende disponibile alla "via della seta" e sbrigherà l'intero intercambio con Pechino -assieme ad altri 67 Paesi- con le due rispettive monete nazionali. La dedollarizzazione avanza.

La politica delle sanzioni&boicottaggi applicata simultaneamente contro tutti, amici e nemici, non riesce a camuffare che vuol ricavare vantaggi dai contrasti e lotte intestine al resto del mondo. L'Europa ne sa qualcosa -ossia 60 miliardi persi- per piegarsi ad un masochistico boicottaggio contro la Russia. Non certo pretestuosi "diritti" -umani o no- Trump esige dagli altri il contrario di quel che pratica: taglia spese di bilancio, però pretende dal giro della NATO-UE l'aumento delle spese militari presso il suo complesso militar-industriale. Militarizza la frontiera con il Messico per respingere il flusso dei migranti latinoamericani, però si compiace delle ondate verso l'Europa di fuggiaschi, prodotti dalle bande mercenarie ISIS&affini coltivate dal Pentagono.

Attualmente, la Cina è diventata leader negli investimenti di lungo periodo nel settore minerario, energetico ed avanza a galoppo nell'interscambio commerciale con l'America latina. La Casa Bianca, invece, ripiega e cerca di far concorrenza alla Russia nel settore delle armi, però non vi riesce più nei sistemi di difesa antiaerea e spaziali.

E' fuori di ogni dubbio che i territori americani non-anglosassoni sono considerati da Washington come sua proprietà. E' così dai tempi del geopolitico Nicholas John Spykman (1893-1943) e della derivata dottrina Monroe.

Oggi è più che mai così: più si contrae l'egemonia sul mercato-mondo, più esplosiva diventa la situazione latinoamericana che -sebbene immacolata ai conflitti bellici del secolo scorso- diventa più vulnerabile.

Gli Stati Uniti e le elites continentali sono impegnati a sradicare metodicamente l'esperienza dei governi che voltano le spalle al FMI. Non si hanno da fare più governi che mettono un freno al globalismo esagitato, o che affermano l'opzione del primato dei diritti sociali sull'unilateralismo dell'economia concentrazionaria. Basta con le ciance sul popolo e tutto il potere al tribalismo finanziario, gridano gli occidentalisti.

 Chàvez è il cattivo maestro da dimenticare, con ogni mezzo, lecito o illegale, pacifico o no. Meglio subito che tardi. Trump lo ha incautamente proclamato, a chiare lettere: ci riserviamo l'intervento militare. Lo scrigno dei giacimenti e miniere del Venezuela risolverebbero le necessità degli USA per il secolo XXI (Amazzonia compresa). Dei 18 elementi della tabella strategica, ben 15 sono abbondantemente presenti nelle viscere della terra di Bolivar.  Finora, però, con Trump è andata a buon fine la tecnica dei golpe surrogati, truccati da non sembrare tali a prima vista. 

Con la combinazione simultanea del fattore mediatico, giudiziario e finanziario, hanno piazzato alla presidenza del Brasile un proprio uomo, non eletto da nessuno, dopo l'estromissione di Dilma Rousseff. Ora si apprestano ad impedire la canditatura dell'ex presidente Lula da Silva, se necessario con la privazione della libertà, perchè risulterebbe eletto al primo turno. E questo non è assolutamente ammissibile per l'oligarchia interna e i suoi alleati nordamericani. Costoro hanno già intascato l'abolizione dei contratti collettivi di lavoro, l'annientamento dell'esile sistema pensionistico, la concessione di basi militari al Pentagono e un colpo mortale alla multinazionale petrolifera statale Petrobras. A Davos, Temer ha giurato che consegnerà l'acquifero Guaranì alla Nestlè e Cocacola.

In Ecuador, invece, il successore di Correa -Lenin Moreno- è riuscito a farsi eleggere come continuatore dell'esperienza popolare, poi con una giravolta rocambolesca si è messo al servizio dei grossisti del denaro. Folgorante cambio di identità? Cinico inganno? No, è più credibile l'ipotesi della "infiltrazione", dei funzionari-dormienti che -sapientemente pilotati- li conducono alla vetta del potere politico. Una variante creativa di golpe della nuova era. Ora Lenin Moreno ha messo la museruola a Julian Assange, ha rinchiuso in carcere gli esponenti del suo partito che lo intralciavano, e si appresta a ri-privatizzare tutto quel che i suoi ingannati elettori gli consentiranno.

Rimane il Venezuela, ferito ma sempre in piedi, dove la popolazione paga un prezzo crescente per la sua "cattiva condotta" elettorale e sociale. Un castigo severo che è il risultato degli effetti accumulati dopo 17 anni di guerra non-militare. Chi ha un progetto alternativo di sviluppo nazionale sa che ogni mezzo eterodosso verrà usato dagli avversari alleati al potere egemonico esterno. Massime quando poggia sui principi dell'equità, indipendenza e sovranità. Finora la tenaglia sicronizzata dei movimenti popolari+forza armata ha tenuto testa alla minaccia e difficoltà.

Una cosa è chiara: nelle Americhe non-anglosassoni, nessun progetto di trasformazione è possibile senza l'adesione -o la neutralità- delle forze armate. Nemmeno la desueta democrazia rappresentativa o pallide reminescenze socialdemocratiche. Per questo la rivoluzione bolivariana resiste, è disarmata ma conta sulle armi della repubblica. E' una riflessione d'obbligo prima di "criticare" o riciclare rigurgiti dell'esausto "politicamente corretto".

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